Pensai che in certi momenti occorre prendere decisioni forti e dunque si ha bisogno di sapori forti.
Fare una carbonara in una cucina praticamente vegana non era semplice, ma, per la prima volta in vita mia, improvvisai.
Non c’erano le uova, non c’era il guanciale né la pancetta.
Presi dei peperoni gialli, li abbrustolii in padella e li spellai, poi li frullai per ricavarne una crema, il colore era quello delle uova, pensai. Nel frattempo buttai gli spaghetti di soia nell’acqua bollente ed ebbi un’illuminazione: da qualche parte doveva esserci.
Frugai nel frigorifero e dietro panetti di tofu, seitan, radici, germogli, la trovai, subdola, che stava lì come se ci aspettasse: la mortadella!
Quella che Cecilia teneva nascosta per la sua SPM e che per le prossime settimane non le sarebbe servita. Decisi di abbrustolirla.
Gli spaghetti erano cotti, li scolai e li condii con la crema di peperoni e formaggio, formai dei nidi e sopra ognuno misi delle striscioline di mortadella abbrustolita.
Era una carbonara sbagliata, la più sbagliata di tutte le carbonare mai fatte nella storia.
Ma la mangiammo di gusto.
Non saprei dire se avesse un buon sapore oppure no, ma non mi importava.
Quello che la faceva sembrare così buona era il fatto che io l’avessi cucinata con tutto l’amore che avevo: quel piatto di spaghetti era un nutrimento per il nostro corpo, ma soprattutto per il nostro spirito. Amore che avevo per le mie amiche, per me stessa, amore che in quel momento sentivo per la mia vita che stava per ricominciare, per le nostre vite scalcagnate per cui provavo un’enorme tenerezza.
Avevo cucinato con uno spirito altruistico nuovo: non avevo cucinato per eseguire una ricetta, per ricreare un piatto alla perfezione, per replicare qualcosa che qualcuno aveva deciso in dosi, ingredienti e proporzioni e pensato che fosse giusto per me; no, avevo cucinato per l’amore di cucinare, di nutrire, di rinfrancare.
Avevo cucinato per offrire.
E in quel momento mi fu tutto più chiaro.
C’era qualcosa di primitivo e puro nell’atto di nutrire, era donare una parte di sé consegnata sotto forma di sapore direttamente nell’anima di un’altra persona.
Era l’idea di rendere le persone felici, piene e sazie.
["Manuale di cucina sentimentale" M.Liverani]
Fare una carbonara in una cucina praticamente vegana non era semplice, ma, per la prima volta in vita mia, improvvisai.
Non c’erano le uova, non c’era il guanciale né la pancetta.
Presi dei peperoni gialli, li abbrustolii in padella e li spellai, poi li frullai per ricavarne una crema, il colore era quello delle uova, pensai. Nel frattempo buttai gli spaghetti di soia nell’acqua bollente ed ebbi un’illuminazione: da qualche parte doveva esserci.
Frugai nel frigorifero e dietro panetti di tofu, seitan, radici, germogli, la trovai, subdola, che stava lì come se ci aspettasse: la mortadella!
Quella che Cecilia teneva nascosta per la sua SPM e che per le prossime settimane non le sarebbe servita. Decisi di abbrustolirla.
Gli spaghetti erano cotti, li scolai e li condii con la crema di peperoni e formaggio, formai dei nidi e sopra ognuno misi delle striscioline di mortadella abbrustolita.
Era una carbonara sbagliata, la più sbagliata di tutte le carbonare mai fatte nella storia.
Ma la mangiammo di gusto.
Non saprei dire se avesse un buon sapore oppure no, ma non mi importava.
Quello che la faceva sembrare così buona era il fatto che io l’avessi cucinata con tutto l’amore che avevo: quel piatto di spaghetti era un nutrimento per il nostro corpo, ma soprattutto per il nostro spirito. Amore che avevo per le mie amiche, per me stessa, amore che in quel momento sentivo per la mia vita che stava per ricominciare, per le nostre vite scalcagnate per cui provavo un’enorme tenerezza.
Avevo cucinato con uno spirito altruistico nuovo: non avevo cucinato per eseguire una ricetta, per ricreare un piatto alla perfezione, per replicare qualcosa che qualcuno aveva deciso in dosi, ingredienti e proporzioni e pensato che fosse giusto per me; no, avevo cucinato per l’amore di cucinare, di nutrire, di rinfrancare.
Avevo cucinato per offrire.
E in quel momento mi fu tutto più chiaro.
C’era qualcosa di primitivo e puro nell’atto di nutrire, era donare una parte di sé consegnata sotto forma di sapore direttamente nell’anima di un’altra persona.
Era l’idea di rendere le persone felici, piene e sazie.
["Manuale di cucina sentimentale" M.Liverani]
Oggi è una giornata così.
Una di quelle in cui Tessa avrebbe fatto una carbonara sbagliata.
Con amore.
E' un periodo pieno.
Stressante.
Un sacco di programmi natalizi sono saltati.
Come si puo' dire di no a più ore di lavoro.
Pagate come straordinari.
Quando si è ancora nei sessanta giorni "di lavoro effettivo" di prova.
Si puo'?
No.
Io amo il Natale.
Il calore.
I pranzi.
Le cene.
E pure le merende!
Lo scambio dei regali.
Il trovarsi e ritrovarsi.
I biglietti. Più importanti del regalo.
La gioia.
I sorrisi.
I luccichii.
Io invece vivo le code.
Le urla.
Le litigate.
La fretta.
Mi chiedo come si possa arrivare a questo punto.
Come ci si è arrivati?
Che fine han fatto il rispetto?
La pazienza?
La calma?
Di notte mi sogno i clienti.
Di giorno me li trovo davanti.
E io?
Chi pensa a me?
Ci si arrabatta. Si corre. Si pensa a tutti.
Ma. Chi pensa a noi?
Perchè se dimostriamo forza e indipendenza dobbiamo essere private di quel sostegno che altre ricevono. Quelle che sembrano così bisognose. Quelle che si fan portare le borse con gli acquisti e pure la borsetta!
Io non voglio un uomo che mi porti la borsetta e pure il cane!
Mi fanno orrore e tristezza!
Perchè se siamo sempre positive e vediamo il bicchiere mezzo pieno gli amici e, soprattutto le amiche, ci scaricano addoso tutti i loro casini?
Io voglio calore.
Sentirmi a casa.
Avere quell'attenzione che con il sorriso dedico a tutti.
E che mi sta stancando tantissimo.
Fuori e dentro casa.
Ecco cosa voglio per Natale.
Una carbonara imperfetta e stramba.
Fatta su misura per me.
Con amore.
Pazienza.
Gioia.
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